lunedì 22 febbraio 2016

Intervista a Walter Chendi

Walter Chendi è nato nel 1950 a Trieste, dove risiede attualmente, e dopo passaggi su Fumo di China e soprattutto su Comic Art (per cui ha prodotto principalmente la serie Nuvola Rossa, interessante esercizio di stile in cui il tema del titolo veniva interpretato in maniera diversa di episodio in episodio) ha adattato la sua produzione alle mutate condizioni del mercato italiano realizzando dei volumi a fumetti nel formato “graphic novel”: con Rizzoli Lizard pubblica Vedrò Singapore? (2004, tratto dal romanzo omonimo di Piero Chiara), Mont Uant (raccolta di tre storie, 2005) e EstNordEst (2007). Nel 2010 pubblica La Porta di Sion con Edizioni BD, opera con cui vincerà il prestigioso premio Gran Guinigi per la Migliore Storia Lunga.

Oltre a questi lavori di più ampia diffusione ha realizzato anche materiale dedicato alla realtà locale e dopo le prime vignette e strisce realizzate in gioventù ha fatto uscire con due editori diversi la sua versione a fumetti delle Maldobrìe di Carpinteri & Faraguna.
Il suo ultimo lavoro in uscita il 25 febbraio con Tunué è la storia lunga Maledetta Balena: oltre alla recensione che leggerete su Fucine Mute l’occasione è buona per fare due chiacchiere con l’autore.

Da quanto si può vedere sul tuo sito, mi pare di capire che Maledetta Balena ha avuto una gestazione piuttosto lunga (se ne trovano tracce anche in un post di tre anni e mezzo fa): in totale quanto tempo ci hai dedicato tra la stesura del soggetto alla realizzazione vera e propria?

        È vero, mi sono concesso un tempo piuttosto lungo nella realizzazione. La prima idea nacque nel marzo del 2011 mentre stavo per pubblicare una raccolta di racconti dal titolo "Sessanta Quaranta" assieme a Roberto Franco. Sono quindi passati cinque anni, ma la balena finì di nuotare a casa mia nel giugno del 2013. Diciamo quindi che ci ho messo più di due anni a concluderla.
        Molto tempo, poi, fu dedicato a spedizioni, attese, altre spedizioni, altre attese. Se dovessi giustificarmi direi che per i nove mesi seguenti lavorai al primo tomo, 54 pagine, di "Rasca", una storia con protagonista il Simplon Orient Express. Poi mi montai la testa e scrissi un romanzo. Avrebbe dovuto essere l'ennesimo fumetto autoconclusivo, ma, scrivendo la sceneggiatura, ci presi gusto ed il risultato diventò "La tigre del circo svedese", 160 pagine.
       Quando, nel giugno del 2015, Massimiliano Clemente mi scrisse che la balena sarebbe potuta uscire in mare aperto nella primavera del 2016, fui contento; ho sempre reputato la Tunuè una casa editrice seria e meritevole dei molti premi ricevuti negli anni.

Sessanta Quaranta lo conosco, oltre ai racconti ci sono anche delle illustrazioni tue. La tigre del circo svedese invece confesso che mi giunge nuovo… chi e quando lo ha pubblicato?

       Beh, ho confessato d’aver scritto “La tigre”, non d’averla pubblicata. Come mi è già capitato di dire, io disegno e scrivo perché non posso farne a meno e finchè avrò cassetti capienti, occhiali puliti e una moglie comprensiva continuerò a farlo. “Rasca” si trova nel cassetto vicino, assieme alla sceneggiatura della sua seconda parte e alcuni dialoghi della terza.
       
La documentazione riveste un ruolo fondamentale in Maledetta Balena, come testimoniato anche dalle planimetrie e dagli schizzi in appendice al volume. Ti ha portato via molto tempo?

        Non direi che la documentazione porti via del tempo. È una parte fondamentale per la costruzione del racconto. Trovare un particolare specifico può portarti da una parte anziché da un'altra. Ti posso confidare che l'idea di un'azione e di una battuta, tra le pagine 19 e 20, mi è stata suggerita da una fotografia nella quale mi sono imbattuto mentre cercavo come si vestiva una contadina del 1940. Ma, per tornare al punto, posso rispondere che la ricerca, fondendosi con la sceneggiatura è durata, per le 142 pagine finali, dai due ai tre mesi. La parte più lunga è stata, forse, la "costruzione" della nave. La storia si basa sulla vera Stockholm, ma non ci sono foto degli interni, a parte un paio di una cabina, o progetti disponibili, perciò ho dovuto farmi dottor Frankestein e creare la mia Kosbörg con i pezzi di molte navi passeggeri dell'epoca.    

Ho notato una netta evoluzione stilistica rispetto alle tue storie più vecchie, come la serie di Nuvola Rossa: mi sembra che qui la linea chiara sia stata integrata da dettagli, anche il colore è più materico e gli elementi caricaturali si sono fatti più rari. Dando per scontato che un’evoluzione stilistica è quasi sempre inevitabile (ed era già in corso nei tuoi ultimi lavori), è una svolta che hai voluto e ricercato o come a volte succede il tuo stile ha preso quella direzione naturalmente?

        Beh, se non ci fosse stato alcun cambiamento in più di vent'anni mi meraviglierei molto. Il disegno può migliorare (spero che evoluzione sia sinonimo di miglioramento) per molti fattori. In questo caso lavorare in A3 anziché in A4, usare punte più fini e intestardirsi sul risultato, ha la sua importanza.

Sul serio lavoravi in A4? Praticamente è la dimensione reale di una pagina di rivista! Con l’A3 mi immagino le difficoltà a trovare uno scanner adeguato, ammesso che scansioni le tavole (Philippe Druillet che disegnava su fogli enormi se le faceva fotografare). Hai parlato di “punte”: che strumenti usi, il Rapidograph?

        Lavoravo in A4 ed il nero risultava un po’ ingombrante. Ora disegno ancora in A4,  porto la misura in A3 per l’inchiostrazione, mi crogiolo nei particolari e nelle espressioni con pennarelli dallo 0,05 allo 0,3 e riporto a una teorica misura di pubblicazione per colorare. Alla fine, una vita dopo, infilo tutto nel cassetto di cui sopra.

Il computer… lo usi per una questione di comodità o per ragioni stilistiche, magari perché certi effetti si possono ottenere solo col computer?

        Ah, il computer! Ho cominciato ad usarlo convinto di velocizzare il lavoro.
Non cerco gli effetti speciali, non m'interessano. La possibilità d'ingrandire l'immagine mi ha portato però, alcune volte, ad un livello maniacale. Esempio: in un'inquadratura del volume "Mont Uant" spuntava, da sotto un telo, una banconota indocinese del 1955. C'erano dei contadini che raccoglievano e portavano dei sacchi, c'era la risaia, il fiume, il valore, il testo, i colori esatti. Quando finii, un paio d'ore dopo, ero proprio soddisfatto di quei 4 millimetri per 6! Tornerei volentieri alle tempere, agli acrilici e alle matite colorate.

Hai mai usato gli acquerelli? Mi era sembrato che usassi quelli (o comunque un medium liquido tipo chine o ecoline) in alcuni lavori.

No, gli acquarelli no. Avevo cominciato con le ecoline, poi ho aggiunto delle tempere ed un po’ di candeggina. Per i miei quadri utilizzavo gli acrilici e mi venne la pazza idea di fare tutto un fumetto con quel medium. Avevo visto Segrelles ed i suoi olii e volli tentare. Feci la prima stesura di EstNordEst tutta in acrilico su carta. Un lavoro pazzesco che ora riposa nascosto in una borsa dietro la scrivania. Qualche anno dopo rifeci tutto in un formato più adatto, colorando con il computer come avevo già fatto per Vedrò Singapore? e Mont Uant.

La citazione di Vicente Segrelles ti fa onore: notoriamente i fumettisti non leggono fumetti. Cosa leggi di solito? Quali sono i tuoi autori preferiti, se ce ne sono?

Cauuet: confesso che non lo conoscevo
Ammetto anch'io di non essere un gran lettore di fumetti; credo di avere meno di 200 album nella mia libreria. Come quasi tutti, fui segnato dai fumetti che leggevo da ragazzino: L'uomo mascherato, gli Albi del Falco con i Nembo Kid e poi Blake e Mortimer. Fui affascinato dal bianco e nero di Attilio Micheluzzi, dal primo Giuseppe Bergman di Milo Manara, dalla Rapsodia Ungherese e dal Sam Pezzo bolognese di Giardino. Più vicini nel tempo ho amato i personaggi di Baru, la lucida magia di Gradimir Smudja con il suo Vincent, i due volumi del Rinvio e la serie Matteo di Gibrat, quel gran raccontatore di Gipi, Arthur De Pins, simpatico favoliere, e tra i disegnatori Serpieri, Sicomoro, Alemanno, Alberti, Meyer, Quintanilha, Christophe Bec, Cauuet e moltissimi altri che non ho letto, ma che ho visto sui siti dedicati. Invidio la capacità di sintesi grafica e colorista di alcuni americani e inglesi. Autori preferiti... la lista sarà sempre monca, continuerò a scoprirne altri.     

In Maledetta Balena utilizzi delle onomatopee molto originali e colorate, in alcune sequenze non credo sia esagerato definirle psichedeliche. Una scelta di questo tipo si era già vista nelle Maldobrìe, ma quello era un contesto umoristico: qui hai fatto ricorso a questo espediente per stemperare certe scene un po’ crude?

In quel periodo avevo letto un paio d’articoli sul lettering. Marco Pellitteri aveva scritto, tra le altre cose, questo: “… oltre alla ricca varietà di rumori e suoni consolidati, normalmente usati dalla maggior parte degli sceneggiatori e dei letteristi, è possibile anche inventare nuove «parole» per comunicare vecchi e nuovi suoni…”
Ebbi voglia d’impegnarmi di più su quei segni. Volevo vedere i suoni e ho usato il colore anche per qualche testo nei balloon. Vorrei sottolineare, con assoluta neutralità, che la sceneggiatura non era per niente semplice e credo d’aver disegnato tutto quel che ho potuto per rendere fluido il racconto.

Tu hai vissuto dall’interno la gloriosa stagione delle riviste d’Autore: cosa ricordi di quel periodo?

Oh, dall'interno! Uno che vive e lavora a Trieste non è mai "all'interno". Ho venduto alla Comic Art alcuni raccontini che servivano alla rivista di Traini come tappabuchi. Non ho mai visto la redazione, ho parlato una sola volta con Oscar Cosulich, il direttore responsabile, e cinque o sei volte con Rinaldo Traini, il capo. Ricordo il grande impegno; per alcune "Nuvola rossa", così s'intitolava quella serie, impiegai anche quasi due mesi. Quelle tre, quattro pagine furono le radici del metodo che misi in pratica in ogni altro lavoro: lento. Ricordo le insistenti telefonate a Rodolfo Torti che aveva il compito di programmare la costruzione dei numeri. Penso di avergli rotto le scatole alcune volte, ma fu sempre gentile, tenendo conto che aveva gente del calibro di Crepax, Cavazzano, Tardi, Boucq, Eisner, Otomo, Toppi, Rotundo, Baldazzini, Micheluzzi, Magnus e se stesso, da impaginare.
Il periodo delle riviste, a detta di tutti, fu un bel tempo. C'era spazio per chi stava cominciando, per il lettore era un gran supermercato. Con poco ti potevi fare un giro nella 9a arte migliore. Ci arrivai alla fine, o quasi. Poco dopo, ad una ad una, chiusero.

Classica domanda di fine intervista: a quali progetti stai lavorando attualmente? Immagino che uno sia il Rasca che hai citato all’inizio.

La storia di Rasca mi è piaciuta da subito. L'idea germinale è di vent'anni fa. Ci sono cose che tieni per te per tutta la vita avendo paura di rovinarle. Forse "Rasca" è una di quelle. 
Il progetto al quale lavoro di più si chiama Gaia ed è mia nipote, ma continuo a scrivere... cassetti capienti, occhiali puliti, moglie comprensiva, ricordi?

1 commento:

  1. Che piacere sapere che è in uscita un suo nuovo lavoro e che è già all'opera sul prossimo. Ho apprezzato Chendi sin da "Vedrò Singapore?". E questo mi ricorda anche che proprio poco tempo fa sono riuscito a recuperare il suo EstNordEst ma che non sono ancora riuscito a leggerlo.

    Quelle sette vignette di Rasca alla fine del post, tra l'altro, sembrerebbero appartenere ad un progetto parecchio intessante.

    Bella intevista.
    Interessante la questione del passaggio dall'A4 all'A3 per la fase d'inchiostrazione.

    RispondiElimina