venerdì 10 dicembre 2010

Gaiman Master of Dreams (originariamente apparso sul catalogo di SciencePlusFiction 2001 e successivamente presentato su Fucine Mute 33)

Gaiman Master of Dreams
And Da Winna Is…
Così iniziava la rubrica Inside DC nei comic book della casa editrice recanti la data "july 1992". L’evento che si celebrava in quel simpatico spazio a metà strada tra l’editoriale ed il "dietro le quinte" era l’annuncio della prossima uscita di due miniserie dedicate appunto a due personaggi della stessa scuderia di Superman. Niente di eccezionale, apparentemente, ma la genesi di questi nuovi progetti meritava senz’altro un commento da parte del curatore Michael Eury.
La scelta dei personaggi beneficiari infatti non era stata pensata a tavolino dai responsabili della DC Comics ma rientrava nell’evento promozionale "Legion of Substitute Editors", con cui i redattori itineranti per le mostre di fumetti chiedevano ai fan di esprimere due preferenze su una rosa di venti candidati per decidere quali volevano vedere impiegati in una miniserie inedita tutta per loro. Contro una pletora di avversari più o meno eccellenti e conosciuti si aggiudicò il secondo posto un quasi quarantenne J’onn J’onzz The Martian Manhunter (creato nel lontano 1955 e secondo alcuni storici del fumetto primo esempio della Silver Age) mentre il primo posto andò a un personaggio che vantava un lustro scarso d’esistenza, e per di più come comprimario occasionale!
Death, che ottenne più del 16% delle preferenze, era insomma il personaggio più richiesto.
Che cosa aveva di così speciale un personaggio che, aldilà del fascino "dark" che poteva esercitare, non aveva superpoteri né costumi sgargianti e in fondo era stata fino ad allora una figura di contorno? Semplicemente, era una parte suggestiva dell’universo che da qualche anno stava delineando un giovane e talentuoso scrittore, Neil Gaiman. E il fatto che così tanti appassionati l’avessero scelta come protagonista di una miniserie testimoniava quanto quell’universo stesse suscitando interesse e ammirazione.
Con Sandman Neil Gaiman avrebbe drasticamente cambiato il modo d’intendere i fumetti (sia a livello creativo che produttivo) nel mondo conservatore dei comic books americani, e l’influsso del suo lavoro si sarebbe fatto sentire fino in Europa. Ripeterlo oggi a più di vent’anni dalla nascita della serie dà la stessa impressione di sfondare una porta aperta (anzi, di aprire delicatamente una porta già scardinata da tanti altri) ma è proprio la prospettiva storica a permettere di ribadirlo con maggiore decisione.


Approdato alla DC Comics grazie ai buoni uffici dell’amico disegnatore Dave McKean (con cui realizzò il suo primo fumetto, Violent cases, la cui prima versione italiana presso Magic Press è resa lettura un po’ ostica dalla mancata traduzione di alcuni elementi), nemmeno lo stesso Gaiman era troppo fiducioso sul successo che avrebbe potuto arridere alla serie che era stato chiamato a rinnovare. O meglio, che aveva scelto di rinnovare. La storia è nota, ha anzi assunto la statura di mito che tanto piace al suo protagonista: a otto anni Neil Gaiman ricevette da una persona di cui a tutt’oggi dice di non sapere l’identità uno scatolone zeppo di vecchi comic books della Silver Age, quel periodo del fumetto supereroistico americano che soppiantò la Golden Age sostituendone l’ingenuità con il barocchismo e il patriottismo con una sfrenata fantasia. Tra i tanti gioielli targati DC e Marvel (che allora muoveva i primi passi) che passarono per le sue mani, il bizzarro Sandman di Joe Simon e Jack Kirby (già "remake" di un Sandman del ’39 targato Gardner Fox e Bert Christman) lasciò un marchio indelebile nel suo immaginario. E fu proprio questo il personaggio su cui la DC Comics gli permise di lavorare, seguendo però le direttive implacabili della redattrice Karen Berger: «Ci piacerebbe un nuovo Sandman. Mantieni il nome, ma il resto è affar tuo!». Una libertà spaventosa, ma giustificata dal fatto che, nell’ottica di rinnovamento e rilancio di personaggi di cui ancora deteneva i diritti, la DC poteva tranquillamente permettersi un certo lassismo creativo nelle serie in cui forse nemmeno credeva più di tanto. Non era passato nemmeno un lustro da quando Alan Moore si trovò in una situazione analoga. E i risultati sarebbero stati per Gaiman addirittura superiori a quelli ottenuti da Swamp Thing.


Iniziato decisamente in sordina, Sandman Master of Dreams cavalcava a livello editoriale la moda residua della raffinatezza estetica. Cioè, dopo che Marvel (ovvero Epic) e DC se ne uscirono a metà anni ’80 con ricercati connubi tra fumetto e arte (come ad esempio Ronin, Meltdown, Elektra: Assassin, Stray Toasters e in seguito anche Black Orchid di Gaiman e McKean) si assistette al proliferare di comic books che in confezione prestige (carta migliore, nessuna pubblicità, copertina disegnata da un artista di qualità) riproponevano nelle loro pagine null’altro che le solite vecchie produzioni seriali. Anzi, a volte la qualità era di netto inferiore al solito standard, e le copertine "dipinte" fungevano da specchietto per le allodole: in più di un’occasione Bill Sienkiewicz sarebbe stato accusato di aver prestato la sua opera per contrabbandare lavori scadenti come Dune.
E in effetti anche nel caso di Sandman le evocative e ricercate copertine di McKean erano ben poca consolazione per i disegni rozzi e sproporzionati di Sam Kieth (il quale comunque avrebbe dimostrato la sua statura di sceneggiatore e soggettista con lavori come The Maxx, Legs e il più recente Zero Girl). Per forza di cose l’attenzione del lettore doveva quindi concentrarsi sui soggetti delle storie e fu proprio questo, inaspettatamente, a determinare il successo delle serie.
Libero, nei limiti di una pubblicazione ad alta tiratura, di scrivere ciò che voleva e soprattutto come voleva, Neil Gaiman diede vita ad un universo estremamente articolato, in cui (già nei primi episodi) capitava che il titolare ufficiale della serie si riducesse a semplice testimone o a deus ex machina risolutivo delle vicende narrate. Sandman fu insieme un racconto di tipo centrifugo e centripeto. Se da una parte Neil Gaiman sfruttava il suo "eroe" solo per presentare personaggi e situazioni che sarebbero stati sviluppati con il progredire della saga (e intuizioni quali quelle dei cicli The doll’s house o A game of you ponevano definitivamente la serie su un altro piano rispetto a quello degli altri comic books), dall’altra saccheggiava a piene mani decenni di produzioni DC e, soprattutto, da millenni di letteratura mondiale. Forse le strizzatine d’occhio ai supereroi classici, che spesso erano presenti in prima persona nelle pagine di Sandman, non sortirono più di un gradevole effetto-nostalgia nei fan della DC, ma l’accumulo di miti, leggende, ballate, opere letterarie e considerazioni metanarrative sarebbe stato fondamentale per il lancio della serie e per la sua definiva affermazione. Fu grazie a Sandman (su cui, figurarsi, Gaiman non sperava di andare oltre l’ottavo, al massimo dodicesimo, numero!) che in America tutto un pubblico che prima l’aveva ignorato scoprì il mondo del fumetto e le potenzialità che questo medium ha se gestito e alimentato dalle persone giuste.


La citazione e la rielaborazione delle fonti più diverse (dai miti africani a quelli scandinavi, passando per Omero, Shakespeare, Ibsen, Petronio Arbitro, Dante, Angelo Poliziano, Svetonio e tanti altri ancora) segnò progressivamente il distacco della serie dalla sua matrice fumettistica originaria e le comparsate degli altri personaggi della DC si fecero via via più rade. Se alla veglia per la morte di Sandman è lecito che prendano parte anche John Constantine e gli altri mystery men in trench, nel nuovo universo creato da Gaiman i supereroi non sono più di casa (indicativo a tal riguardo l’episodio Façade in Sandman Master of Dreams 20) ma qualche considerazione sull’uso che ne fa il nuovo guru del fumetto statunitense va fatta. Benché Gaiman si sia pentito in seguito di aver inserito alcuni eroi della Justice League of America nei primi episodi di Sandman, è impossibile non notare con quanta maestria siano stati introdotti. L’incubo di Scott Free è una sequenza carica di pathos (ed è lodevole il fatto che Kieth si sia messo umilmente ma con molta efficacia a ricalcare le orme di Jack Kirby) mentre l’apparizione di J’onn J’onzz non si limita a essere un omaggio perfettamente amalgamato con il resto della storia, ma diventa anche una sorta di manifesto sulla direzione futura della saga di Sandman. L’unico rammarico è l’assenza di quella divertita ironia con cui Gaiman, in Black Orchid, aveva tratteggiato la figura di Batman. Ma d’altronde tutti i rimandi culturali dovevano essere trattati con una giusta austerità per non passare inosservati, e su questa linea si sarebbe mosso coerentemente Sandman Master of Dreams.



Il gradimento dei lettori non tardò a farsi sentire e in breve la testata divenne campione d’incassi sul suolo americano. Pochissimo tempo dopo, tali vette di guadagno sarebbero state raggiunte anche dalla Image ma in Italia solo quest’ultima ebbe un successo eclatante e ciò in effetti non fa troppo onore al Belpaese; d’altronde, le prime edizioni di Sandman targate Comic Art lasciavano un po’ a desiderare: con la pubblicazione presso Magic Press Sandman avrebbe avuto la sua giusta considerazione anche da noi. Conscia della potenziale miniera d’oro che aveva per le mani, la DC non lesinò sugli investimenti e sugli "effetti speciali" per promuovere e potenziare Sandman. Un salutare avvicendarsi di disegnatori portò il livello grafico della saga a vette qualitative stratosferiche (fermo restando l’altissimo valore della coppia Dringenberg-Jones III, forse non apprezzata come avrebbe meritato): veri mostri sacri come Kelley Jones, Brian Talbot, Matt Wagner, Paul Craig Russell, John J. Muth, Charles Vess e Michael Zulli furono ingaggiati per illustrare le storie poetiche ed evocative di Gaiman, e nel farlo furono coadiuvati dalle nuove possibilità tecniche messe loro a disposizione dalla DC: ad esempio, il lavoro di Charles Vess sul numero 19 fu colorato al computer dal grande Steve Oliff mentre Michael Zulli poté realizzare i suoi tre episodi del ciclo La veglia interamente a matita. E gli aspetti collaterali del fumetto dimostravano anch’essi un’attenzione e un impegno inusuali sul mercato americano: i primi otto numeri della saga furono raccolti in un prestigioso albo cartonato, Preludes & Nocturnes, e le copertine della serie regolare furono luogo di sperimentazioni cartotecniche ardite come gli effetti fluorescenti di Sandman Special 1 (un annual uscito nel 1990, quando Sandman Master of Dreams aveva poco più di un anno).
Ma, dimostrando che plebiscitario successo popolare ed elevatissima qualità possono andare a braccetto, Gaiman non si limitò a godersi le soddisfazioni economiche per il suo lavoro, ma anche quelle professionali. A midsummer night’s dream, il diciannovesimo numero della testata (che, quindi, non aveva ancora compiuto i due anni di vita editoriale) fu premiato con il World Fantasy Awards, un importantissimo premio del settore che, per la prima volta in assoluto, veniva assegnato ad un fumetto. Sarebbe stato il primo di una lunga lista.
Mr. Gaiman era ormai lo sceneggiatore di punta della scena anglofona e non solo la DC lo impegnò su altri progetti (come Books of Magic, anch’esso origine di nutriti sviluppi futuri) ma fu ingaggiato persino da Todd McFarlane per dare maggiore spessore al suo Spawn, mentre quasi clandestinamente si dedicava alla letteratura non disegnata.
Le nuove creazioni ed il recupero dal cosmo DC furono talmente ben architettati da dare vita ad altri fenomeni presso la casa editrice di Superman, e tutto il "nuovo" che Gaiman iniettò nel fumetto statunitense si concretizzò addirittura con la fondazione di una sottoetichetta della casa madre, in cui riversare i titoli più maturi (Hellblazer, Doom Patrol, Shade, ecc.) e per la quale ne furono creati altri "suggested for mature readers". Ancora oggi la Vertigo è presente, tra alti e bassi, sul mercato americano e gli influssi di Sandman, sotto forma di ripresa di personaggi o di situazioni, si fanno sentire a tutt’oggi, costituendo anzi la parte più suggestiva del parco testate.
Ma Neil Gaiman non è solo un esempio per i colleghi per le sue doti letterarie. Anche a livello economico e produttivo il creatore di Sandman fece le sue brave rivoluzioni. Il suo personaggio di spicco fu infatti, se non il primo in assoluto, perlomeno quello più importante in cui si concretizzò la pratica del charachter creator-owned, la cui paternità intellettuale spetta cioè ai soli creatori, con le ovvie conseguenze a livello di sfruttamento commerciale e diritto di supervisione. Ma, soprattutto, Sandman Master of Dreams fece cessare decenni su decenni di una pratica imperante del fumetto seriale, che proprio da essa traeva linfa. Sandman non chiuse i battenti per il calo delle vendite o per ordini "dall’alto": la serie fu sospesa al numero 76 perché Neil Gaiman volle così (anzi, per lui si sarebbe dovuta bloccare ancor prima, ma il concetto non cambia).
Si contano sulle dita di una mano gli altri casi mondiali di un fumetto seriale cui sia stata concessa una "morte" così bella, quando cioè si è all’apice del successo e ci si sottrae così all’inevitabile declino. La DC, che pure tanti grattacapi aveva dato ad Alan Moore e Rick Veitch (stendendo un velo pietoso sul caso Siegel & Schuster), ha dimostrato un’intelligenza e una lungimiranza senza pari sulla scena USA e, cosa che ha dell’inverosimile, un rispetto a tutta prova per un Autore il quale ha aperto la strada per un trattamento analogo ai suoi colleghi. Senza soffermarsi sulle postfazioni autobiografiche dei volumi Vertigo, che a volte hanno un gusto un po’ autocelebrativo (peraltro più che legittimo, cfr. il primo Vamps di Elaine Lee) va citato inevitabilmente il caso della raccolta Dream Country che in appendice presentava una sceneggiatura di Gaiman così come era stata concepita, con l’aggiunta di commenti suoi e del disegnatore Kelley Jones. Lo sceneggiatore divenuto Autore di culto ha aperto prospettive inimmaginabili per i fumetti americani, e non è assolutamente fuori luogo dire che anche la cultura media del lettore ne ha tratto giovamento.

…E fin qui niente di nuovo. Della cultura, della suggestività e delle capacità affabulatorie di Neil Gaiman si sono già scritti addosso in molti (anche a sproposito, com’è inevitabile). Ma se abbandoniamo il timore reverenziale che ammanta di "monumentalità" opere che hanno come referenti Omero, Shakespeare e compagnia notiamo che Neil Gaiman non è solo l’(inattaccabile) autore di Sandman. Esiste anche, in ambito fumettistico, un Gaiman più quotidiano, meno aulico e quindi immediato, incisivo e addirittura ironico. Per questa sua naturalezza e semplicità, indubitabile segnale di quanto Gaiman sia abile nell’architettare una sceneggiatura, è lecito chiedersi se non sia proprio questo il Gaiman migliore, quello cioè delle storie brevi.
In questa non sterminata produzione sono due le opere che emergono per la loro qualità semplicemente eccelsa: Hellblazer 27: Hold me e Batman black & white 2: A black and white world. È vero che molto spesso in Sandman alcuni episodi autoconclusivi denunciano in maniera lampante la loro autonomia dalla trama principale e dal personaggio titolare della serie (in particolar modo quelli inseriti nel ciclo Dream’s County, ma la serie è piena di micro-storie, racconti nei racconti e "sintagmi in graffa") ma l’unità stilistica dell’opera viene ovviamente preferita a slanci creativi improvvisati che potrebbero snaturare Sandman. Non meritano particolare menzione nemmeno Il castello e Paura di volare, riuscitissimi "divertisements" inseriti nelle raccolte Vertigo Jam e Vertigo Visions, in cui aleggia un certo spirito promozionale e descrittivo che mette in secondo piano la narrazione. Angela, l’episodio scritto da Gaiman per lo Spawn di McFarlane è senz’altro importante a livello produttivo e di puro esercizio creativo, ma riveste scarso interesse per la nostra analisi, mentre la campagna di prevenzione Death parla della vita merita appena la citazione.
Tutti i titoli di cui sopra sono ovviamente delle opere perfettamente riuscite e spesso hanno un’importanza fondamentale per capire alcuni aspetti della produzione seriale americana, ma gli esempi più calzanti dell’abilità di Gaiman nel creare storie brevi sono, appunto, i due incontri con il mondo di John Constantine e con quello di Bruce Wayne.
Hellblazer è la serie che la DC Comics consacrò al "mystery man" John Constantine, creato nel 1985 da Alan Moore per la saga di Swamp Thing, che stava già rivoluzionando il mondo dei comic books. Il limite più grande di Hellblazer (lo stesso Moore era perplesso sull’eventualità di dedicare una testata intera a Constantine) è la confusionaria eterogeneità degli sceneggiatori che, lavorandoci sopra in tempi diversi, ne facevano alla fin fine ognuno ciò che voleva inserendo spunti, atmosfere e stili anche radicalmente diversi tra loro. (di Alan Moore, Swamp Thing e Hellblazer abbiamo trattato più diffusamente su Fucine Mute 28)
Nemmeno Gaiman sfugge a questa regola e per il n°27 confeziona una storia straziante e partecipata in cui Constantine è quasi solo un testimone: Hold me (Hellblazer 27 del marzo 1990; Stringimi, apparsa su Hellblazer 10, Comic Art, 1994, i disegni sono di Dave McKean).



La trama di Hold me è facilmente riassumibile: un barbone muore di freddo ma risorge come fantasma alla ricerca di calore umano. Da una parte abbiamo l’orrore vero, le tragiche condizioni dei senzatetto inglesi costretti a strisciare «come ratti cenciosi» in cerca di un rifugio e dall’altra l’orrore rassicurante ed un po’ fiabesco di un topos dell’horror, che assume nei confronti del primo orrore un ruolo risolutorio, rassicurante. Ciò non avviene solo a livello narrativo (la scia di morti che si lascia dietro il clochard fantasma è il motore della vicenda) ma anche culturale poiché il richiamo a una figura di finzione che ne sostituisce una reale ben più tragica assume uno statuto consolatorio per il lettore, sdrammatizzando l’immagine del barbone che riesce, almeno nell’aldilà, a trovare un pur minimo riscatto. La dicotomia tra orrore reale e orrore fantastico si mantiene inalterata nell’altro livello della storia. John Constantine viene abbordato a una festa da una vecchia conoscente, Anthea: accetta di accompagnarla a casa, bevono qualcosa assieme, ascoltano la musica adatta e lei gli chiede di fare l’amore. Un fulmineo flashback di Constantine blocca di colpo la situazione: Anthea è lesbica e interrogata al riguardo confessa di averlo sedotto con l’intenzione di fabbricarci insieme «una piccola bimba bionda» per lei e la sua compagna Sarah.
Indignato come solo un inglese sa essere (e su questa irascibilità britannica di Constantine molti autori, principalmente inglesi, si sarebbero profusi in divertiti ammiccamenti), John esce dall’appartamento di Anthea, per scoprire dapprima una bambina in lacrime e poi la causa della sua disperazione: la madre le è stata appena uccisa dal fantasma del barbone. Il meccanismo delle coincidenze è praticamente ineccepibile: Anthea gestisce un rifugio per disperati («Fuggiaschi, disgraziati, senzatetto, qualche ubriaco. Anche dei matti, ora che le autorità locali non hanno i soldi per occuparsi di loro.») e contemporaneamente, in un’ala disabitata del palazzo in cui vive, avevano trovato una momentanea sistemazione i tre barboni con cui comincia la storia, e di cui uno diverrà lo spirito tormentato. Tutto ciò si sposa alla perfezione con la breve introduzione che, nell’episodio, ci viene fatta del personaggio di Constantine, ben poco incline a sopportare le barzellette razziste di un tassista e talmente impietosito da offrire il suo intero pacchetto di sigarette a un clochard. Implicitamente, John e Anthea sono quindi già destinati ad incontrarsi e a far convergere le proprie esistenze.
Lo "scontro" con lo spettro di Jacko, il barbone che non vuole abbandonare il regno dei vivi prima di aver provato del vero calore umano, si conclude nell’arco di quattro tavole, con una sorta di balletto al rallentatore inframmezzato dai commenti fintamente cinici di Constantine per sdrammatizzare la situazione, far partecipare il lettore e mantenere coerente la sua personalità. E dopo una sequenza così intensa e coinvolgente una sorta di "morale" finale non stona affatto, rendendo anzi universale la storia appena raccontata ed aumentandone ulteriormente la levatura drammatica.
Così, con levità e senza clamori inutili, Gaiman affronta un problema decisamente drammatico, di cui ci fornisce aspetti anche piuttosto crudi, ma con uno stile insieme sobrio e partecipato che rende più efficace la sua prosa e fa della storia quasi un apologo sulla natura umana. E il tutto si svolge all’interno di un meccanismo a orologeria assolutamente perfetto, che non cede in nessuna delle sue parti e che trova anzi una ineccepibile consequenzialità con i giusti tempi d’entrata in scena di ogni personaggio. La lunghezza di 24 pagine dei comic book normali (che in realtà hanno una foliazione più cospicua, ma molte pagine sono occupate da pubblicità) è stata spesso oggetto d’analisi o di sperimentazione da parte di altri colleghi della Vertigo, ma è lampante quanto la compattezza di Hold me sia ben più riuscita che non i tentativi di dare una significazione ulteriore al formato degli albi tramite, ad esempio, la divisione in ore delle tavole (in modo da simulare con le 24 pagine a fumetti una giornata intera; ma tentativi del genere si sono dimostrati poco funzionali alla lettura). E all’interno di questa macchina infallibile c’è anche lo spazio per mostrare ancora una volta quanto il cosmo DC sia conosciuto da Gaiman e quanto sappia usarlo con ironia e consumata professionalità. Passa quasi inosservato a un neofita il riferimento al «sacco di roba strana nel sangue» che Constantine dice di avere ad Anthea interrogato riguardo agli esami per l’AIDS, mentre il suo sfogo alla domanda se fosse arrabbiato per la richiesta di fare da padre alla «piccola bimba bionda» è troppo enfatico per passare inosservato: «Ma cosa avete tutti? Ho forse un cartello sulla schiena che dice: "banca dello sperma ambulante - si accettano prelievi"? […] Prima Alec e Abby, ora tu…». Gli episodi cui si fa riferimento sono tratti rispettivamente da Hellblazer 8, in cui avviene una trasfusione di sangue demoniaco, e da Hellblazer 10, cross over di Swamp Thing 76 in cui Alec Holland prende possesso del corpo di Constantine per fecondare la compagna Abby. Insomma, la denuncia sociale, la sapiente costruzione di una storia, l’universalità dei concetti immessi nel racconto e la ricercatezza di didascalie e dialoghi realistici ma raffinati non tolgono a Gaiman la voglia di strappare un sorriso e di fare sfoggio della propria dimestichezza con il mondo DC. E tutto ciò in 24 pagine!
L’altra incursione di Gaiman in un settore estraneo a Sandman, che ha saputo però utilizzare al meglio e portare a vette qualitative semplicemente sublimi è Un mondo in bianco e nero, storia in 8 tavole illustrata da un Simon Bisley che si deve essere divertito un mondo nell’affidare il suo pennello all’estro iconoclasta dello sceneggiatore. Il personaggio di Bob Kane e Bill Finger non merita certo presentazioni, semmai può essere utile delineare sommariamente il progetto Batman Black & White. Da sempre icona più duttile e "sperimentale" di altre, Batman ha avuto anche l’onore di essere protagonista di una miniserie di quattro numeri in cui il gotha del fumetto mondiale era stato assoldato dalla DC per interpretare liberamente il personaggio, immettendolo però in quella monocromia che, da Love and Rockets in poi, è legata in America al concetto di fumetto adulto. Forse dire che gli Autori contattati fossero assolutamente liberi è esagerato (vedi il caso di Moebius, che si vide censurata la sua storia) ma è evidente quanto l’opera di Gaiman e Bisley si discostasse dal coro quasi unanime di omaggi incensanti. La vicenda narrata in Un mondo in bianco e nero (e già il titolo indica la consapevolezza metatestuale di Gaiman) è, infatti, il resoconto ricostruito di una storia ben più eroica di cui però vediamo solo 3 tavole in sovrapposizione con l’arco narrativo portante.


Batman e Joker non sono altro che due attori stanchi ed amareggiati costretti a recitare in eterno le parti per cui sono conosciuti dai lettori! In 8 tavole ci viene in pratica mostrato il "dietro le quinte" di una giornata lavorativa, dall’ingresso di quel "maschione" di Batman (le segretarie di produzione non sono immuni al suo fascino…) alla pausa pranzo degli attori prima di "girare" le tavole 21 e 22 del prossimo numero di Batman. Tra la noia per l’attesa di andare sotto i riflettori e le considerazioni sulle carriere di altri personaggi della serie, emerge la straniante sensazione dell’ineluttabilità del destino degli eroi dei fumetti, costretti a ricomparire ogni mese uguali a come erano stati salutati dai lettori il mese precedente, e impossibilitati a sottrarsi a questo meccanismo mortale che almeno assicura loro il pane quotidiano. Come abbassamento parodico non c’è male: Batman e Joker si riducono a recitare qualsiasi porcheria pur di mandare avanti baracca e burattini. Ed è ancora più straniante vedere che i due personaggi sono sempre loro anche fuori dal set, marcando ulteriormente il senso d’ineluttabilità che la storia trasuda ad ogni vignetta. Indipendentemente dalla sua origine di critica raffinata al mondo del fumetto seriale o di semplice esercizio di stile chiuso in sé, Un mondo in bianco e nero è zeppo di trovate metanarrative che ne esaltano la già evidente genialità. A dialoghi comici come «E questa sarebbe una battuta? Io sono il Joker, percaritaddiddio. Stallone fa più ridere di me.» - «Credo che il suo sceneggiatore sia pagato meglio.» fanno da rincalzo altri che denotano una più marcata vena analitica: «[…] Tu hai pagine di chiacchiere.» - «Sì, e allora?» - «Io non chiacchiero mai.» - «Beh, tu sei il tipo forte e silenzioso, io il matto che chiacchiera sempre.».
Insomma, per farci capire di essere uno dei più grandi sceneggiatori della storia del fumetto, a Neil Gaiman non occorreva certo imbastire una saga di quasi 2000 pagine.

Nessun commento:

Posta un commento