domenica 5 febbraio 2017

Il Fotografo primo volume

Il dodicesimo Don Camillo non vuole proprio saperne di arrivare, quindi mi tocca dedicarmi a spulciare le offerte della fumetteria per compensare.
Il Fotografo pubblicato in Italia dalla Lizard non mi ha mai interessato, anzi l’ho sempre guardato con un certo sospetto, ma lo mettevano al 50% di sconto e alla fine sono capitolato.
Questo genere di fumetto non mi interessa, il graphic journalism o qualunque sia la categoria in cui rientra Il Fotografo è una semplice esposizione di fatti (talvolta narcisistica) che proprio in virtù della sua natura di reportage può permettersi, anzi si sente quasi in dovere di fare, di essere disegnato approssimativamente – e con Guibert mi è pure andata bene. Senz’altro un volume da lasciare sbadatamente sul tavolino del soggiorno, oppure in bella vista nella libreria, per fare colpo su una certa categoria di ospiti, ma fumettisticamente parlando siamo al Neolitico. La mia impressione è stata confermata, ma tutto sommato poteva andarmi peggio.
Nel 1986 Didier Lefèvre accompagna come fotografo una missione di Medici Senza Frontiere diretta a Badakhshan in Afghanistan, fotografa praticamente tutto («Mi chiedo cosa ci faccio qui. E, come sempre, mi rispondo scattando delle foto» è la sua spiazzante filosofia di vita) e il fumettista Emmanuel Guibert compone i ricordi di Lefèvre come una sceneggiatura integrandoli con dei disegni per imbastire un fumetto, o qualsiasi cosa sia Il Fotografo. L’apporto più importante viene da Frederic Lemercier, colorista e “montatore” dell’opera che le dà il suo aspetto compiuto e quindi la parvenza di BéDé. Per quanto il ricorso a enormi didascalie che incorniciano le foto e le vignette cristallizzi l’opera e la renda più simile a un libro illustrato, soprattutto all’inizio.
Come prevedibile, ci sono appunto un sacco di didascalie a riassumere e descrivere quello che i disegni, scarni e spesso privi dei benché minimi sfondi, non possono lasciar trapelare (e Guibert ha pure un tratto molto piacevole e maturo, con cui potrebbe realizzare opere “classiche” di sicura qualità). Di conseguenza sono spesso i dialoghi le parti migliori, quelle in cui le nozioni passano con maggiore efficacia grazie alla verve degli interlocutori e in cui alcuni scambi di battute riportano Il Fotografo su un piano più narrativo che meramente descrittivo. Il viaggio si snoda con una certa piacevole indolenza da studio entomologico soffermandosi anche sulle diversità antropologiche delle popolazioni incontrate, cosa che offre però il destro a commenti talvolta un po’ infelici.
Alla fine un certo interesse viene suscitato (e considerato l’argomento mi sembra inevitabile) e non mancano neppure bei momenti come l’episodio dei 15 minuti di black-out in Pakistan, ma il fascino di quella sequenza e il suo ritmo si devono al lavoro del colorista Lemercier. Paradossalmente, in più di un’occasione mi sono trovato a pensare che Il Fotografo avrebbe funzionato meglio proprio senza le foto che spezzano quel poco di ritmo che ha. Anche perché alcune sono state riprodotte in formato molto piccolo oppure inspiegabilmente storte, costringendo il lettore a uno sforzo per decifrarle e quindi estraniandolo ancora di più dal tessuto della narrazione.
Il lettering, che sicuramente Nadège Vaïnas avrà elaborato a partire da quello originale di Guibert, non è molto bello e rende un po’ ostica la lettura (i punti sembrano delle virgole), e questa prima edizione della Lizard datata 2004 non è nemmeno scevra da refusi.
Il valore di documentazione di quest’opera è innegabile (tecnicismi a parte, la sequenza dell’operazione del tumore al piede è veramente toccante) ma dal punto di vista del fumetto è meglio stendere un velo pietoso.

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