giovedì 14 novembre 2013

Fashion Beast



Gli appassionati di fumetti sono dei pecoroni che fanno i loro acquisti in base al nome/marchio dell’autore piuttosto che sulla base di osservazioni oggettive. Ne sono ben consapevoli la Avatar Press e ovviamente anche la Panini, che ha dato alle stampe questa miniserie tratta da un progetto cinematografico naufragato di Alan Moore (il cui nome è scritto a caratteri cubitali), commisionatogli a suo tempo da Malcolm McLaren (scritto in grande, hai visto mai che qualche punk di ritorno vada nelle edicole) e concretamente reso fumetto da Antony Johnston e dal disegnatore Facundo Percio (se guardate con attenzione trovate anche i loro nomi).
Fashion Beast è ambientato in una bizzarra distopia che rimanda agli anni ’80 britannici, in cui le divisioni tra classi sociali sono marcatissime e in cui incombe una costante minaccia nucleare mentre infuria una guerra globale. Uno dei pochi modi che qualcuno ha per uscire dallo squallore della propria vita è la moda, e la protagonista Doll riesce a infilarsi nella maison del guru Celestine (che le note dicono ispirato a Christian Dior) dove si prenderà le sue rivincite imboccando però una china assai pericolosa.
La trama si sviluppa effettivamente come se fosse la trasposizione di una sceneggiatura cinematografica da manuale: il primo quarto serve a introdurre ambientazione e personaggi principali, a metà abbiamo l’ace in the hole e nell’ultimo quarto c’è la conclusione risolutiva. A ben guardare il turning point centrale non è affatto originale o sorprendente, tanto meno geniale: è anzi un coup de théâtre già visto in altri film e in un sacco di altri fumetti (i primi che mi vengono in mente: l’episodio sotterraneo di Fuori del Tempo di Barreiro e Alcatena ed Esmeralda di Stalner e Achdé).
Comunque molto soddisfacente e ben costruito il finale, in cui oltretutto i tarocchi acquistano finalmente un senso e un ruolo abbastanza chiaro nella storia dopo essere stati elementi fastidiosamente decorativi nel corso degli altri numeri.
Rivedere questi scenari apocalittici e pessimisti ormai desueti non suscita la rabbia e l’indignazione che probabilmente erano i primi movens di Alan Moore. Non li suscita in me, almeno. Più che altro ho provato una sensazione di languida nostalgia, non certo per il clima reaganiano-thatcheriano alla base della trama ma per una sensazione di affettuosa consapevolezza della distanza tra le suggestioni di un mondo ormai tramontato (e il pensiero va a come era il lettore in quell’epoca) e la coscienza in prospettiva che ne abbiamo oggi – in tedesco esiste sicuramente una parola di almeno 35 lettere per indicare questa sensazione, io meglio di così non so spiegarmi.
Ai disegni Facundo Percio compie un ottimo lavoro. Già a livello estetico è molto bravo, ben più di tanti altri suoi colleghi più celebrati, ma quello che lo rende speciale e ancora più meritevole è l’abilità con cui ha saputo rendere sulla pagina delle sequenze che denunciano palesemente quanto fossero pensate in origine per il cinema, giocando sui movimenti di macchina o sulla fissità della ripresa: con ogni probabilità molte scene erano state ideate come carrellate o come piani sequenza a camera fissa. In quest’ultimo caso Percio non ha nemmeno fatto ricorso a fotocopie o computer, se non proprio in pochi casi verso la fine: ho controllato. Anche se arriva alla fine col fiato corto, Percio è stato fenomenale.
In definitiva, com’è questo Fashion Beast? Non è un capolavoro, ma è senza dubbio un buon fumetto che pur presentando situazioni e ambientazioni per nulla originali e francamente desuete (oltre ad alcuni elementi che sembrano buttati lì più per gusto del bizzarro che per reale necessità) riesce comunque a infiocchettarle sufficientemente bene da rendere la storia intrigante e la lettura scorrevole. Se non ci fosse stato il nome di Moore in copertina probabilmente io, da buon pecorone imbecille, non lo avrei degnato di uno sguardo: non che mi sarei perso chissà che, ma in fondo è stata una piacevole scoperta. E tutto sommato la Panini avrebbe potuto agire in maniera ancora più infida producendo dal fumetto un unico volumone costoso da comprarsi a scatola chiusa invece che serializzarlo ad una prezzo piuttosto contenuto, tanto più che è bimestrale (quindi la spesa è ulteriormente diluita) e che la Avatar Press ha impostato generosamente i singoli comic book che compongono la saga “come si facevano una volta”, ovvero sulle 24 tavole a capitolo e non limitandosi alle 20 com’è uso già da un po’.

2 commenti:

  1. Mi scopro un po' meno pecora di quel che pensassi, questo non l'ho comprato :)

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  2. Io ho preso il primo numero senza sapere assolutamente chi si nascondeva dietro il progetto... mezza pecora, dai^^

    Moz-

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